31 mars 2007

"LA RELAZIONE ALLA STAR : una modalità del sentimento di esistere" par Emmanuel Ethis

Non è facile dire cosa sia una star. Eppure, quando ci viene posta la domanda, riusciamo facilmente a distinguere, per esempio fra gli attori cinematografici, chi è una star e chi non lo è. Si pensa immediatamente a James Dean, Leonardo Dicaprio, Brad Pitt, Monica Bellucci, Marlon Brando, Jean-Paul Belmondo, Alain Delon, Elisabeth Taylor, Ava Gardner, Audrey Hepburn, Brigitte Bardot, Catherine Deneuve... Ogni generazione ha il suo repertorio, e si potrebbe dire, all’inverso, che il repertorio dei nomi delle stars è caratteristico di ogni generazione. C’è però un nome che fa eccezione perchè è transgenerazionale: quello di Marylin Monroe. Dell’attrice, Billy Wilder diceva: “Non ho mai saputo cosa fosse ‘fare Marylin’. Mai saputo. Perchè Marylin era imprevedibile, non sapevo mai cosa avrebbe fatto, come avrebbe interpretato una scena. Dovevo convincerla a fare in un altro modo, o sottolineare quello che faceva dicendo: ‘va molto bene’, oppure ‘faccia così’. Poi c’è stato il vestito alzato dal vento, lei lì in piedi... non ho mai capito perchè è diventata così popolare. Mai capito... Insomma, era una star” (Crowe: 2004, p. 136).

All’interno del “contratto cinematografico”, cioè della relazione costruita e oggettivabile fra la sfera del cinema e il mondo sociale, la star è un elemento principe. “Strumento di base” istituito dal cinema americano sin dal 1910, occupa un posto centrale anche in altre cinematografie nazionali: in Francia, in Germania, in Gran Bretagna o in India. Così com’è stata definita da Edgar Morin, la star interessa particolarmente la sociologia del cinema perchè tocca diversi aspetti sociali costitutivi dell’oggetto cinematografico: “1. I caratteri filmici della presenza umana sullo schermo e il problema dell’attore; 2. la relazione spettatore-spettacolo, cioè i processi psico-affettivi della proiezione-identificazione, particolarmente vivi nel buio delle sale cinematografiche; 3. l’economia capitalista e il sistema di produzione cinematografica; 4. l’evoluzione socio-storica della civiltà borghese” (Morin, 1972 [ed. orig. 1956], p. 10). Si comprende bene quali sviluppi siano oggi sottesi negli ultimi due punti toccati da Morin: una delle evoluzioni delle nostre società contemporanee può essere in effetti constatata attraverso l’uso stesso della designazione di “star”, che non si limita più al solo mondo del cinema, ma si estende a quello sport, della televisione, della canzone o della moda. In questi ultimi anni in Francia degli sportivi come Zinédine Zidane, delle cantanti come Mylène Farmer, o attori di sitcom come Sébastien Roch, indossatrici come Claudia Schiffer hanno avuto diritto all’etichetta di “star”. Per il sociologo, è importante chiedersi se questa decuplicazione dell’uso del termine ricopre realtà comuni. Perchè a tutti questi individui viene improvvisamente (e spesso fuggitivamente) attribuita quest’etichetta? Quando si comparano i diversi usi, l’ipotesi che si impone rinvia alla stessa logica economica con cui l’industria hollywoodiana delle origini tratta le star da lei stessa consacrate. L’analisi di questo fenomeno che il sociologo Richard Dyers propone nel suo volume Stars, pubblicato nel 1979, espone con precisione in che modo, secondo lui, la star, considerata irresistibile e quindi generatrice di profitti per gli investitori, partecipa allo sviluppo di questa logica capitalista. Lo sport, la moda, la televisione, la canzone o il cinema funzionano con investimenti dello stesso ordine. Ma poichè queste industrie si basano tutte su modalità simili di presentazione mediatizzata, che puntano i riflettori su certi individui – che “captano” questa luce meglio di altri – non è anormale che il fenomeno “star” si generalizzi all’insieme di questi ambienti. L’approccio di Dyers, apertamente fondato su una prospettiva marxista, colloca la star, prodotto dell’ideologia dominante delle società industriali occidentali, in una funzione di promozione di questa ideologia. Così, bisogna chiedersi in che modo funzioni un’ideologia dominante, se si vuole comprendere in che modo la star assolva alle sue funzioni in seno a quest’ideologia. La risposta data dal marxismo è semplice. Un’ideologia può essere dominante soltanto se riesce a far credere che non difende solo gli interessi della classe dominante, ma che in realtà questi interessi sono dei valori che dovrebbero essere umanamente condivisi dall’insieme della società. Tenta di istituire, di fatto, una visione del mondo corretta che deve imporsi “naturalmente” a tutti i membri del corpo sociale. In questo senso, Dyers mostra che il cinema, in quanto media della cultura di massa, si appoggia in maniera privilegiata sulle stars che fabbrica per far passare i valori dell’ideologia dominante e soprattutto per mascherare le contraddizioni che potrebbero nascere al suo interno. In effetti, presentando, ad esempio (come accade spesso) ciò che potrebbe essere oggetto di scontri sociali sotto forma di storia che mostra lo scontro fra due persone, il cinema contribuisce a trasformare i conflitti di classe in storie individuali e singolari.

Pur proponendo una spiegazione sulle finalità del dispositivo che questa logica economica mette in scena utilizzando la star, l’analisi di Dyers non permette tuttavia di spiegare come funziona la dinamica sociale legata allo statuto della star, non più di quanto non spieghi in che modo al cinema soltanto determinati individui vengono consacrati da questo statuto. Ora, come accade spesso nelle società industriali, le logiche economiche funzionano perchè si accompagnano a logiche simboliche. La logica simbolica che sottende il funzionamento della star è legata soprattutto ad una “qualità dell’essere” singolare, assume dei paradossi socialmente accettati per conferirle una statuto d’eccezione. “La star non ha potere pur essendo potente, si distingue dal comune dei mortali, ma è stata ‘come me e te’. Beneficia di compensi esorbitanti ma il suo lavoro non è visibile in quanto tale sullo schermo. Si direbbe che il talento sia una condizione necessaria per diventare una stella, eppure non si saprebbe stabilire una correlazione sistematica fra le competenze necessarie per recitare e lo statuto di star. Si ritiene che la vita privata abbia poco a che vedere col mestiere d’attore, eppure l’immagine della star riposa ampiamente su alcuni aspetti intimi: legami amorosi, matrimonio, gusti vestimentari, vita di famiglia...” (Allen, Gomery, 1993:202). Non tutti diventano attori cinematografici, e fra gli attori, non tutti diventano delle star. Bisogna comunque lavorare, ma qui è l’aura che è messa in gioco, un’aura “magica” che dà l’illusione che la star sia arrivata alla posizione che occupa perchè era predisposta a diventarlo, perchè è un “eletto”. In questo modo, la star è insieme molto lontana da chi la idolatra a causa del suo statuto, ma anche più vicina a questi utltimi di qualsiasi altro attore, perchè la considerano una di loro: se anche loro possedessero quest’aura, sarebbero naturalmente al posto della star che adorano. Questa condizione di star, pensata come accessibile per un anonimo ‘toccato dalla grazia’, spiegano parzialmente il fatto che da parte della star si tolleri qualsiasi stravaganza, anzi pare che commetta queste stravaganze proprio in nome di coloro che l’amano. E ciò che spinge una coppia a chiamare la figlia Elizabeth quando il film Cleopatra trionfa sugli schermi, o chiamare il figlio James quando Sean Connery è al culmine del successo, è molto sintomatico. Questi “nomi da cinema” rivelano un atteggiamento forte equivalente a quello che consiste nel dare al proprio figlio, consapevolmente, quando si è credenti, il nome di un santo. Quest’atteggiamento esprime concretamente i nostri tentativi di costruire un legame simbolico con una rappresentazione del mondo che ci aggrada, che diventa di colpo oggettivabile, e di fatto appropriabile attraverso l’attribuzione del nome della star che si ama e con la quale si crea una sorta di filiazione. In questo senso il modo di esistenza della star è un discorso che è tanto estetico quanto sociale: è in questo senso che, al quotidiano, “i loro propositi più insignficanti sono diffusi, ripetuti, commentati all’infinito” (Kessel, 1937:79). Per comprendere gli atteggiamenti dei “fans” non bisogna tuttavia, nel quadro di un approccio sociologico, trattarli con l’accondiscendenza degli intellettuali che credono che “nelle sale cinematografiche solo loro sono capaci di fare la differenza fra lo spettacolo e la vita. Gli spettatori fanno la differenza. [Ciò che rende le star sociologicamente interessanti, è che, per ciò che le riguarda] questa differenza sfuma : la mitologia delle star si colloca in uno spazio misto e confuso, fra credenza e divertimento. [...] Il fenomeno delle star è insieme estetico – magico – religioso, senza essere mai, se non all’estremo limite, totalmente l’uno o l’altro” (Morin, 1972 [1956] : 8). Per Edgar Morin ciò che motiva gli individui a venerare le star del cinema è legato ad una profonda evoluzione sociologica inerente agli slanci del nostro mondo contemporaneo: “l’individualità umana [vi si] afferma secondo un movimento nel quale entra in gioco l’aspirazione a vivere a immagine degli dei, ad eguagliarli se possibile. [...] Le nuove star « assimilabili », star modelli-di-vita, corrispondono a una spinta sempre più profonda delle masse verso una salvezza individuale; e le esigenze, a questo nuovo stadio di individualità, si concretizzano in un nuovo sistema di rapporti fra il reale e l’immaginario.

Si comprende ora tutto il senso della lucida formula di Margaret Thorp: il desiderio di riportare le star sulla terra è una delle correnti essenziali di questo tempo”. (Morin 1972 [1956]:34-35). E, parallelamente al movimento che consiste nel “riportare le star sulla terra”, si instaura un movimento inverso che lascia credere ai loro spettatori che loro stessi possono elevarsi, prendendo in prestito ciò che hanno di più accessibile: i loro “segreti” di bellezza. Poichè il cinema valorizza il corpo della star grazie alla luce, sfrutta la fotogenia dei visi, fa della pelle ingrandita all’estremo sullo schermo gigante un vero e proprio paesaggio. Come afferma Georges Vigarello nel suo Histoire de la beauté, sin dal 1935 i giornali femminili pongono l’accento sull’idea di accessibilità dello statuto di star. Così, in un dossier intitolato “la fabbrica delle star”, un editorialista del giornale Votre beauté scrive: “Le star non sono fatte di una natura diversa dagli altri”. Marie-Claire insiste su questa strada sviluppando l’idea che le star hanno semplicemente una tenacità particolare nel diventare ciò che sono, una tenacità di cui qualsiasi donna sarebbe capace, a patto di volerlo. “Sternberg non dice del resto di aver trasformato Marlène Dietrich? Guance scavate, sopracciglia depilate, viso finemente spigoloso, corpo più svelto [...]: la Marlène di Hollywood fa dimenticare quella, ben più primitiva, di Berlino. La sua fisionomia è più misteriosa, il suo corpo più leggero, relegando l’attrice di una volta a tratti scialbi e infantili. Perchè non ispirarsi a lei? L’argomento è indubbiamente estremo: mantiene il culto, ma trasforma le coscienze” (Vigarello, 2004: 214). “Inventando” il corpo della star il cinema, oggetto della cultura di massa del XX secolo, mette alla portata di tutti le rivendicazioni di un XIX secolo che spera già in una bellezza dalla portata socialmente più condivisa. Ma presentando una bellezza divenuta accessibile, il mondo dello spettacolo non dimentica di presentarne il prezzo, un prezzo che entra perfettamente in risonanza con i valori delle società capitaliste : il merito e la volontà.


Emmanuel ETHIS
Laboratoire Culture et Communication / Centre Norbert Élias
(in convenzione col LAHIC)
Riassunto dell’intervento al convegno
Scrivere agli idoli
ASP-Museo storico in Trento
Trento 10-12 Novembre 2005
(traduction d'Anna Iuso)
Nota : la version complète de ce texte sera publié courant juin 2007